Gli imputati, all’epoca del fatto, gestivano un’autofficina. In occasione di un controllo ambientale, sono stati rivenuti, nel luogo di produzione, rifiuti (speciali, pericolosi e non) derivanti dall’attività esercitata. Si difendono eccependo che l’accumulo rinvenuto deve qualificarsi alla stregua di un «deposito temporaneo», che, come è noto, non è sottoposto ad obbligo di autorizzazione (art. 183, lett. bb, d. lgs. n. 152/2006).
In tema di rifiuti, al fine di qualificare il deposito come temporaneo, il produttore può alternativamente e facoltativamente scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello temporale, ovvero può conservare i rifiuti per tre mesi in qualsiasi quantità, oppure conservarli per un anno purché essi non raggiungano, anche con riferimento ai rifiuti pericolosi, i limiti volumetrici previsti.
Tuttavia, nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ricorda che “l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo”(deposito per categorie omogenee e non alla rinfusa, rispetto del limite temporale o quantitativo etc.) “grava sul produttore dei rifiuti”.
Orbene, posto che questo onere nel caso di specie non era stato assolto, anzi era risultato un deposito alla rinfusa, ciò ha trasformato l’attività oggetto del deposito in illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti. Da qui la condanna penale degli imputati (cfr. Cass. pen. n. 42110 del 14.10.2019).