La natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184bis), non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine). Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica.
Per aver realizzato un’attività di gestione di rifiuti non autorizzata (nella fattispecie commercio di rifiuti non pericolosi), il Tribunale riconosceva colpevoli gli imputati del reato di cui all’art. 256, co. 1, lett. a), T.U.A. I soccombenti impugnavano la sentenza, argomentando che il materiale oggetto di contestazione, in ragione dell’attività svolta dal cessionario (realizzazione di reinterri, riempimenti e simili) era tale da consentire la riutilizzazione del prodotto, per cui potesse essere qualificato, ai sensi dell’art. 184 bis T.U.A., come sottoprodotto e non già come rifiuto. Il ricorso è infondato. La Cassazione ribadisce che nell’indagine volta all’accertamento dell’effettiva natura di rifiuto deve evitarsi di assumere la sola ottica del cessionario del prodotto e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene. Nel caso in esame, gli inerti costituivano residuo di lavorazioni, caduto in fondo ad un ravaneto ed ivi abbandonato/depositato in modo incontrollato, tale da potersi escludere che gli stessi sarebbero stati utilizzati (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 46586 del 18 novembre 2019).