Il caso è quello di un lavoratore che svolgeva le mansioni di addetto alla foratrice ed allo strettoio; la foratrice si era inceppata a causa di una basetta (che fa parte del macchinario della foratrice) incastrata nei meccanismi di trazione; nonostante fosse a conoscenza della procedura idonea a sbloccare la foratrice in sicurezza, il lavoratore aveva preso un cacciavite ed aveva infilato la mano, protetta dal guanto, in un piccolo varco presente nel recinto di protezione in plexiglas posto a copertura degli ingranaggi del macchinario; una volta sbloccato il meccanismo, la foratrice si era riattivata agganciando il guanto di protezione e trascinando la mano della lavoratrice tra gli ingranaggi, con conseguente frattura esposta del terzo dito della mano destra. Risulta come pacifica la circostanza che il varco nel quale il lavoratore ha infilato il braccio fosse funzionale al processo produttivo e che gli organi lavoratori della macchina fossero integralmente protetti e segregati, fatta eccezione che per il suindicato varco, da un recinto di protezione, tanto che sulla base di tali premesse fattuali, la Corte di Appello, a differenza del Tribunale, non ha ravvisato la violazione della specifica regola cautelare contestata, ossia il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68 ma ha confermato la pronuncia di condanna, sussumendo la violazione nella generale norma prevenzionale detta dall’art. 2087 cod. civ., a mente della quale l’’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. In particolare, si legge nella sentenza impugnata: “Non rileva il fatto che la O. abbia commesso la grave imprudenza di raggiungere la zona di inceppamento della macchina arrampicandosi ed allungandosi il più possibile, munendosi di un cacciavite ed infilando il braccio nella piccola fessura presente nella recinzione perimetrale, trattandosi di un’evenienza del tutto prevedibile, come efficacemente tratteggiato dal giudice di prime cure, laddove il Tribunale si era limitato ad affermare, sul punto: “Il comportamento della O. non è consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzatili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, ma è stato solo un gesto imprudente compiuto nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative”. La Cassazione, invece, parte dalla seguente considerazione: se è vero, da un lato, che è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro. In sintesi, si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro. Non risulta, in ogni caso, corretto desumere l’inidoneità delle misure prevenzionistiche dal concreto aggiramento di esse ad opera del lavoratore, risultando tale operazione logica configgente con il principio di affidamento, che esige l’individuazione di un limite, superato il quale gli obblighi antinfortunistici del datore di lavoro non trovano più fondamento nel generale dovere di minimizzazione del rischio. Cass. pen. sentenza del 02.02.2015